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Profit driven marketing: investire online ricordandosi di quello che (alla fine) conta

Nonostante stia crescendo la consapevolezza delle aziende su quanto Internet (e il digitale in generale) sia un canale capace di sostenere la crescita di un’organizzazione, vedo ancora tante reticenze quando vado a incontrare le aziende.

Non è più un tema di ”soglie di ingresso” (che, se ci sono, lo sono più dal punto di vista delle competenze interne che del mero budget), e al netto di eccezioni, ad esempio aree merceologiche di iper-nicchia (dove la platea di potenziali clienti è talmente ridotta – e nota – che azioni commerciali più “dirette” funzionano benissimo), qualsiasi azienda dovrebbe avere interesse ad avviare un percorso virtuoso su questo fronte.

Uno dei motivi principali per cui la cultura dell’investimento nel digitale fatica ad attecchire in alcuni contesti, è la difficoltà (interna alle aziende, ma di conseguenza ne siamo responsabili anche noi fornitori) a tradurre queste discipline in una chiave che sia più vicina al modo in cui ragiona (e ai problemi e le sfide che deve affrontare) chi ha davvero un ruolo apicale e di decisione nell’azienda.

E la struttura di questo mind-set è fatta di concetti, quali quote di mercato, ricavi e – soprattutto – profitto e margini, di cui anche noi “del mestiere” dobbiamo (ri)appropriarci.

La capacità di un digital marketing manager di vedersi assegnare del budget, è proporzionale alla sua capacità di convincere i decisori interni che queste cose “servono”. E nella piccola e media impresa italiana, spesso chi decide se e come investire i soldi è il fondatore-imprenditore in persona, che spesso non ha dimestichezza con queste materie. O peggio, non le ritiene utili.

La chiave è riuscire a raccontare e sviluppare il marketing digitale, in qualsiasi forma o attività esso prenda forma, in una chiave che sia più vicina al business dell’azienda.

E la prima cosa da fare è, quando possibile, allargare la visuale, alzando lo sguardo dai concetti tecnici propri di questo mondo e rendere il tutto più coerente a quello che l’azienda si aspetta di ottenere: una crescita, basata sull’aumento dei clienti, dei ricavi, e del profitto.

Da marketing come centro di “costo”, a centro di “profitto”

Raccontare gli investimenti in digital non in relazione al costo ma ai benefici generati.

Nel riportare nelle riunioni interne i risultati – ad esempio –  di investimenti in advertising online, di solito si parla di impatto del costo pubblicità sull’investimento (COS) o resa della spesa pubblicitaria (ROAS). Entrambe le metriche interpretano l’investimento come un costo per l’azienda, non lo leggono in funzione del profitto (margine) che hanno generato.

Il cambiamento di prospettiva si può applicare sia in ambito di e-commerce ma anche in progetti di lead generation (a patto di conoscere il valore medio delle lead, ad es. in termini di contratti firmati etc.).

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Questo cambio di paradigma deve avvenire quindi a livello di lessico, di misurazione, di racconto delle attività, ma può darci degli input anche nello sviluppo della strategia vera e propria.

Il costo di acquisizione: non è (sempre) vero che più basso è, meglio è

La maggior parte delle aziende stanzia il budget marketing l’anno prima per l’anno dopo, basandosi su ragionamenti e analisi di vario tipo (storico, aspettative di crescita, rimanenze rispetto ad altri investimenti fatti/da sostenere, etc.). Questi importi vengono poi distribuiti dal digital marketing manager nelle diverse attività (acquisizione di traffico, strumenti, tecnologie, consulenze etc.), a ognuna delle quali vengono destinate delle risorse “finite”.

Il fatto che la cifra da investire sia quindi “bloccata”, che si sia abituati a interpretare gli investimenti innanzitutto come “spese”, e che si rimanga (troppo) legati allo specifico canale (quanti lead/ordini ho raccolto da una data sorgente), e non all’impatto che questo ha avuto nella crescita dell’azienda (che fatturato/crescita, mi hanno generato), fa sì che spesso il ragionamento sia: meno mi costano i clienti/lead, più ne riuscirò ad avere e rendicontare.

Se l’impegno trasferito all’agenzia, o a chi ha la gestione operativa degli investimenti, è di minimizzare il costo di acquisizione, la reazione sarà quella di smorzare la spesa pubblicitaria (in termini di costo a clic che siamo disposti a mettere sul piatto) e stoppare tutte quelle attività (campagne, annunci) con un tasso di conversione più basso della media.

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Il risultato sarà sì una diminuzione del costo di acquisizione, ma a fronte di una contrazione di investimenti, visibilità e volume complessivo di contatti generati. E’ probabile che facendo così si siano perse delle opportunità per strada, ed è quindi determinante mettere in relazione il costo di acquisizione del cliente con la resa che quel contatto darà nel tempo.

Un cliente non è (quasi) mai da “una botta e via”: la profittabilità nel tempo

Al giorno d’oggi, anche per limiti tecnologici (difficoltà di integrazione tra CRM e Google Analytics, gestionali “chiusi”, o dati che proprio mancano), siamo ancora abituati a leggere il nostro funnel di acquisto come un insieme di clic, e non come uno storico di acquisti e interazioni che uno specifico utente ha avuto con l’azienda.

Ma questo genera un problema: non possiamo “pesare” il costo di acquisizione di un cliente se non lo arricchiamo (almeno) con il dato sul ricavo medio che nel tempo quel cliente genera per l’azienda, in maniera diretta (riordini, up-cross selling) o indiretta, es.  (passaparola, recensioni etc.). Ottenere questa informazione non è banale (servono strumenti, e soprattutto una mentalità “pronta”).

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Per partire, possiamo anche basarci su delle stime, fatte su un campione statisticamente rilevante di clienti, sui quali siamo certi di avere il dato. Disporre di questo dato, aiuta a “leggere” il costo di acquisizione non più in senso assoluto – rischiando di scivolare verso il “più basso è meglio è”, ma relativo, ovvero

  • determinare in maniera più efficace quale potrebbe essere la cifra massima che possiamo permetterci di investire per acquisire un cliente
  • valutare la strategia e le singole tattiche/canali in base alla capacità di procacciare lead o clienti che danno la maggiore remuneratività nel tempo

Segmentare per “tirare fuori” profitto dove ci sono più chance che ci sia

Un’altra opportunità che ci dà questo approccio, è il poter raffinare la nostra strategia creando gruppi di clienti in base al loro storico di spesa, a cui dedicare azioni mirate e differenti: ad esempio, a chi ha acquistato prodotti di fascia alta, possiamo fare up-selling su prodotti e servizi della stessa linea di prezzo. A chi invece ha acquistato un prodotto di fascia “b”, possiamo proporre un upgrade.

Queste procedure possono, in parte, essere automatizzate. Alcuni esempi:

  • offerte speciali per i clienti più fidelizzati (ad esempio extra sconti, o anticipare “per pochi” la partenza di alcune promozioni)
  • proposta di prodotti o servizi in up o cross-selling (es. hai comprato il prodotto “core”, e ti propongo gli accessori,  l’assicurazione, …)
  • avvisi su prodotti inseriti in wishlist o già acquistati in precedenza, che calano di prezzo

La remuneratività dei prodotti conta

Distribuire a pioggia il budget a disposizione per coprire quante più porzioni del catalogo possibili, può essere controproducente. Quasi sempre infatti succede che una piccola parte dell’offerta di un’azienda, è quella che genera la maggior parte del fatturato.

Al contrario, può succedere che i prodotti che si vendono di più, non siano per forza quelli dove l’azienda margina meglio.

Prendere consapevolezza di queste dinamiche, raccogliendo informazioni da chi in azienda ne è in possesso (area commerciale, di solito), aiuta a concentrare gli sforzi su ciò che è più remunerativo, evitando di disperdere sforzi su linee di prodotto dove non siamo sufficientemente competitivi, o non abbiamo una marginalità che ci possa mettere in condizione di spingerli.

Questa logica vale nel medio lungo periodo, ma nel breve lo stesso approccio basato sulla ricerca del profitto, potrebbe portare a scelte opposte (es. ho un prodotto civetta che vendo sotto costo ma piazzo per prendere il cliente, su cui poi fare up-selling con prodotti “core”).

Inoltre, isolare le categorie di prodotto o di servizio a più alta marginalità, ci permette di identificare quei segmenti di pubblico più propensi ad acquistarli, e di creare di conseguenza delle audience simili a questi ultimi – tramite la funzione lookalike audience di Facebook, o segmenti di pubblico simili della suite Google Ads.

Non perdere mai di vista altre opportunità di generare crescita e ricavi

Di solito, il digital marketing manager sa quali sono i momenti dell’anno in cui spingere perché la domanda aumenta. Questi però sono i periodi in cui anche i concorrenti si attrezzano per essere particolarmente presenti, rendendo più complesso e costoso promuoversi.

Un occhio a come si muove la concorrenza, anche basandosi su dati di storico, può aiutare a cogliere “finestre” in cui inserirsi dove c’è magari meno domanda, ma più spazi di manovra proprio perché la pressione dei concorrenti è inferiore. Questo genere di informazioni si può ricavare grazie a strumenti di terze parti (ad esempio, SEMrush, Similarweb etc.) o analisi svolte – anche se in forma anonimizzata – dai circuiti pubblicitari stessi.

Anche alcuni eventi di cronaca o attualità inaspettati possono essere delle ottime opportunità di adattare la nostra strategia. Parliamo di eventi sportivi o altre occasioni che determinano un picco di interesse che potremmo sfruttare per proporci.

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Conclusione: non conta vincere le battaglie, ma le guerre

L’ultima cosa da non dimenticare è quella di sforzarsi di ragionare in maniera olistica: non considerare le singole attività di promozione, o canali che siano, come silos a sé stanti, ma come ingranaggi di una macchina che produce benefici se tutte le componenti danno il loro contributo. Questo per evitare di cancellare dal piano canali che non producono conversioni al costo di acquisizione desiderato, perché magari sono ottimi canali per propiziare conversioni che arriveranno più avanti in altri modi.

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In questo senso, un corretto modello di attribuzione è una delle cose di cui dotarsi, soprattutto nel caso ci sia un mix di canali molto strutturato.

Ti occupi di marketing digitale in azienda e hai anche tu difficoltà a far passare la bontà di certi investimenti? Cosa ne pensi di un approccio del genere?

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