È da almeno un paio di anni (sto scrivendo queste righe che è il 17 giugno 2020) che tra gli aspetti sui quali i marketer “promettono” di puntare circa l’email marketing, la personalizzazione si sta giocando il podio con altri elementi.
A supporto del fatto che non me lo sono inventato :) ecco i pareri di Oracle (link) e Litmus (link).
Personalizzazione: ma in che termini? Fino a che punto?
La video registrazione di un intervento al quale avrei dovuto assistere dal vivo in Sud Carolina mi ha dato la giusta sberla in faccia.
Un primo livello di personalizzazione potrebbe essere quello di contemplare il nome di battesimo di chi riceve la mail nell’oggetto (che non è sempre e a prescindere una linea guida da seguire: i caratteri “buoni” sono solo una cinquantina) e nel corpo della newsletter.
L’intervento di cui sopra mi ha fatto però tornare con i piedi per terra: al netto del fatto che vedo questa linea guida ancora troppo poco applicata, si tratta di una opzione disponibile praticamente da sempre; il relatore ha usato addirittura questa espressione, per darne la misura: “it is super easy sh*t”. :)
La personalizzazione può determinare grandi benefici perché è fattore abilitante al fatto che la newsletter sia rilevante per chi la riceve (tanto per chi la invia, è sempre rilevante).
Però ambire a una personalizzazione basata sui comportamenti (più che sui dati demografici – quello è più semplice, come abbiamo visto) è costoso e oneroso: si parte da un apparato tecnologico in grado di “catturare” i dati e distribuirli verso tutti i “pezzi” (tecnologici) coinvolti per arrivare a un piano editoriale che deve per certo prevedere un aumento della produzione di contenuti (personalizzati, appunto).
Potremmo quasi dire che i dati demografici (che determina l’identità della persona) e i dati comportamentali sono agli estremi della linea che definisce il grado di personalizzazione.
Siccome per muoverci da sinistra verso destra ci sono anche degli investimenti economici, è importante definire prima fino a che livello di personalizzazione è funzionale che si arrivi e, soprattutto, quanto posso permettermi di spendere per arrivarci.
La tecnologia necessaria a personalizzare per davvero
Apro una digressione rispetto alla questione tecnologica e di analisi.
La comprensione diventa più facile se traduciamo “comportamenti” con “eventi”: qualsiasi azione svolta (o non svolta) può essere codificata come evento; l’insieme di evento viene detto “event streaming”.
Questi eventi necessitano di essere condivisi con “customer data platform” (ad esempio Segment, https://segment.com) che si occupa di fare la “fusione” tra identità e comportamento e restituire l’informazione all’ESP (es. Mailchimp).
Le possibili combinazioni che derivano da questa “fusione” aprono a una scelta davvero ampia di scenari (e trigger e campagne).
È fondamentale avere le idee chiare circa i comportamenti che
- riteniamo strategico osservare (per imparare)
- speriamo che le persone facciano
- speriamo che le persone non facciano
Trovare la propria formula. Contro la voracità
Avere le idee chiare fin dal principio è importante e questa “cosa” di darsi un obiettivo ha molto senso perché, anche quando si parla di personalizzazione, vedo spesso nell’azienda cliente con la quale sto lavorando salire un certo senso di “fame”: quanti e quali dati voglio? TUTTI!
Ma se li vuoi tutti, in realtà, significa che non stai guardando nulla, se non dati troppo aggregati (e quindi poco utili).
È importante darsi una regola, determinare una formula, che ti aiuta a capire fin dove ha senso spingersi con la personalizzazione (oltre quella che riguarda la più semplice identità).
Rispetto a questo punto, mi ha aiutato molto a chiarirmi le idee una lettura, una “confessione”, fatta sul blog di un consulente di email marketing e copywriting che ha raccontato un proprio processo evolutivo rispetto proprio al tema della personalizzazione (della sua offerta commerciale e delle comunicazioni via email).
La sua formula è questa: raccogli dati per personalizzare fino a dove la tua offerta commerciale te lo consente.
Che la puoi leggere anche così: segmenta – e personalizza – per necessità ma rispetto alle diverse necessità che il tuo prodotto (o servizio) può risolvere.
Raccogli dati per personalizzare fino a dove la tua offerta commerciale te lo consente
Vediamo un esempio (finto).
Mettiamo che il sito di MOCA sia stato strutturato per raccogliere, in fase di richiesta di un preventivo, questi dati:
- nome
- cellulare
- azienda
- provincia
- servizio desiderato
- fatturato dell’azienda
Bene.
A questo punto MOCA si dovrebbe chiedere: variamo il preventivo in funzione, ad esempio, della provincia e del fatturato? Possiamo proporre servizi diversi a un’azienda in provincia di Treviso fattura un milione di euro rispetto a quelli che proporremmo ad una in provincia di Venezia che ne fattura mezzo?
La risposta è no.
Certo, “provincia” e “fatturato dell’azienda” possono essere utili in un altro momento ma allora, se da una parte è bene raccoglierli (appunto, in un altro momento), probabilmente è bene anche non ambire a portarci dietro questi dati nel Mailchimp di turno.
Perché non ci servono per personalizzare e rendere l’offerta più rilevante e di valore (per chi la riceve).
Possono esserci certamente finalità statistiche per cui “fa comodo” avere la medesima informazione distribuita in più piattaforme.
Ma personalmente preferisco adottare il principio di minimizzazione dei dati (che tra l’altro compare anche nella GDPR) tenendo poi a mente che maggiore è la proliferazione dello stesso dato in più piattaforme e maggiore è la possibilità che, ad un certo punto, le informazioni non siano aggiornate ovunque.
E poi procedere con dei grandi export su Excel. :)
Tu sei più per la voracità o per la minimizzazione?
Mi fai sapere che ne pensi?
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